mercoledì 25 dicembre 2013

M. Bellet, Minuscule traité acide de spiritualité. Recensione di Paolo Calabrò

Di rado i libri di Bellet si assomigliano tra di loro: la sua bibliografia, potremmo dire, è fatta di tutti “pezzi unici”. Ciò nonostante, con il suo ultimo Minuscule traité acide de spiritualité (ed. Bayard, 2010) è andato perfino oltre la sua consueta inconsuetudine, consegnandoci un’opera completamente diversa dalle precedenti (purtroppo al momento disponibile solo in francese). A cominciare dalla brevità: si tratta di un volume di meno di 100 pagine, che è possibile leggere in una serata (opzione sconsigliata: il libro richiede una lettura e una “digestione” ben più ampi). Ma alimentato dalla stessa sorgente che da sempre ispira l’opera del filosofo:
io non parlo che di una sola cosa, dolce ed amara, ma nella quale la divina tenerezza è infine il gusto profondo ed essenziale. Ed è un puro invito a vivere, fuori dalle tristezze assassine.
Tra il serio e il faceto, Bellet mette in luce
la miseria di tanti atteggiamenti e convinzioni che diamo per scontate. Ecco alcune preghiere “sincere, che tuttavia dovremmo evitare”:
Mio Dio, fa’ che io riesca in ciò che tu mi assegni, così ch’io possa renderti grazie e calpestare allegramente tutti i miei rivali. Mio Dio, dammi la pace interiore di quelli che non hanno nulla da fare e nessuno a cui pensare. Mio Dio, ti ringrazio di non essere come questi farisei e di avermi dato la virtù dell’umiltà, con la quale compensare la mia incapacità ad avere a che fare con gli altri. Mio Dio, io perdono dal profondo del cuore coloro che mi hanno fatto del male. Auguro loro il più gran bene e che - per il loro bene più grande - tu non li risparmi. Mio Dio, fa’ che quelli che amo vedano finalmente realizzarsi i propri sogni, senza che io debba minimamente occuparmene.
Se queste cose ci fanno un po’ sorridere è perché conosciamo da vicino questo modo di essere cristiani, che ci circonda e che spesso trova conforto e ispirazione nella Scrittura. Bellet ci offre una salutare iniezione di lucidità, che ci ricorda che l’azione e la contemplazione non sono separati, e che l’interpretazione della religione come “cosa dell’anima” o “dell’aldilà” è il più grande misconoscimento (e fallimento) della religione. E ci ricorda che la partita dell’eternità si gioca nel presente, sul terreno - non della teologia, o della morale - ma della realtà:
se volete comprendere che cos’è il peccato originale, potete rileggere la Genesi, o la Lettera ai Romani. Se così non è abbastanza chiaro, aprite il giornale.
Da ultimo, mi piace leggere nel “minuscolo” del titolo non solo l’allusione alla dimensione del volume, ma anche al minuscolo dello scritto: mentre il maiuscolo è riservato ai nomi propri (e alle categorie: a cominciare da “Dio”), alle forme usuali di deferenza (Preg.mo Dott., Le scrivo...), a tutto ciò che insomma si intende collocare su di un piano superiore a quello ordinario (operazione che insinua subdolamente la pretesa del collocante di essere in qualche modo compartecipato da tale superiorità del collocato), il minuscolo è invece quello dei sostantivi, degli aggettivi e dei verbi. Quello delle cose, degli uomini, degli eventi reali. Il mondo in cui “tutto è rapporto di forze” e in cui “la parola d’amore non è quella che lo dice, ma quella che lo dona”. Lezione che Bellet ci ripete, instancabile, con la sua tranciante ironia:
un corso sui miracoli è certamente più interessante intellettualmente che dire semplicemente al paralitico: “alzati e cammina!”.
Quando solleviamo il nostro sguardo dai libri, la verità che abbiamo sotto agli occhi è il paralitico che ha bisogno di aiuto. E questo tocca a noi.

(«l'Altrapagina», marzo 2011)

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