Agostino, Sulla Trinità, 8-12
La filosofia di Bellet è un continuo “riportare a terra” il pensiero perso nelle nuvole dell’astrazione, un continuo ricondurre il generale al particolare da cui deriva; a questo procedimento non si sottrae neanche l’“al di là” per eccellenza: la divinità.
La divinità si dà nella forma della tenerezza: essa è come la buona terra, nel duplice senso di ciò cui ci si può appoggiare senza timore di sprofondare e di ciò che fa venire al mondo e crescere. È ciò che fa venire alla luce, al mondo, all’essere, spontaneamente, senza darne ragione e senza domandarne conto. Essa è nell’uomo l’amore dell’altro indipendentemente dai suoi difetti, dai suoi eccessi, da come dovrebbe essere e da come vorremmo che fosse. E del resto, per Bellet non c’è divinità se non nel “tra voi” del Vangelo (Lc 17,21), nella relazione di ogni uomo all’altro, che permette a entrambi di essere umani.
È la forza più grande dell’universo, che dal buio del nulla fa emergere l’essere e la vita. Per questo è sciocco considerarla debolezza. Debolezza è quella di colui che schiaccia l’altro perché si sente schiacciato, è mettere i piedi sulla testa del prossimo per poter meglio autoaffermarsi. Vera forza è invece usare la propria capacità, anche nella forma della rinuncia, per permettere all’altro in difficoltà di trovare il suo proprio spazio e il suo proprio equilibrio. Forza e debolezza, se queste due categorie devono avere un senso rispetto alla realtà, vanno riconosciute in ultima istanza dal frutto che sono in grado di generare. E come si può chiamare forza qualcosa che produce morte, sfruttamento, sopruso, esclusione?
Il discorso sulla divinità è quindi tutt’altro che “spirituale”, ideale, disincarnato. La divina tenerezza è concreta fino ad essere corporale: essa riguarda il corpo, non l’intelletto, perciò – anche senza alcuna argomentazione – può essere gustata. Cosa è più evangelico: aiutare il povero in difficoltà, o dirgli: “Beato te, tuo sarà il regno dei cieli?”
Questa tenerezza divina va oltre ogni idea di divinità e punta al cuore stesso della realtà, attingendone il nucleo più profondo, si potrebbe dire “mistico”, se si intende questo termine non come estasi di pochi illuminati ma come esperienza, aperta a tutti, che la realtà è più profonda di tutto ciò che noi possiamo codificare (motivo per cui tutti i totalitarismi – politici e intellettuali – che pretendono di rinchiudere la realtà in un sistema onnicomprensivo, sono destinati a degenerare nella distruzione, ciò di cui il secolo XX ha dato ampia prova).
«Che noi siamo gli uni per gli altri, donandoci di vivere nella pace e nella libertà reciproca: in ciò si concentra il divino che a lungo gli uomini hanno sognato».
(«L’Altrapagina», giugno 2008, p. 40)
0 commenti:
Posta un commento