George Steiner
Che cos’è l’uomo? In che modo, entro quali limiti e con quali fini si può parlarne? Per Bellet la risposta a queste domande si inscrive nel contesto di quella che chiama “scienza dell’umano”, rigorosa ma non dottrinaria, non sempre del tutto oggettivabile ma al di là dell’opinione. Scienza che oggi, nell’epoca della decomposizione dell’umano, diventa sempre più urgente: da un lato perché, con la mercatizzazione del mondo da parte dell’economia e l’oggettivazione della realtà da parte della scienza, anche gli uomini si trovano sempre più spesso a venir considerati merci o addirittura “cose” (si pensi, banalmente, alle espressioni utilizzate oggi per definire l’uomo che lavora: “risorsa umana”, “forza-lavoro”); dall’altro perché questo processo sfocia sempre più spesso in una distruzione di massa nella quale la fa da protagonista una tecnologia al servizio dei massacratori (negli ultimi tre quarti di secolo siamo passati senza soluzione di continuità dall’efficienza delle camere a gas naziste alle bombe intelligenti del Medio Oriente), nella quale le vite umane diventano sempre meno significative mentre, per contro, sempre più importanti diventano i numeri (come nello scandaloso servizio del TG1 del 7 aprile scorso sul terremoto in Abruzzo, dove per minuti interi la giornalista ha decantato le cifre dell’audience delle diverse edizioni del telegiornale relative alla disgrazia).È banale l’osservazione che la scienza e la tecnica, genitrici del “progresso”, non hanno mantenuto la promessa fatta all’epoca dei Lumi: quella cioè di dare all’umanità intera, grazie appunto alla loro infaticabile opera e alle conquiste del progresso, la libertà dalla schiavitù del lavoro e la felicità perpetua. Il progresso si è presentato sulla scena accompagnato sottobraccio dalla “presenza nell’uomo di una capacità terribile di distruzione”: «non abbiamo forse questo sentimento, o questo presentimento, che in mezzo alla prodigiosa galassia dei nostri successi si scavi un buco nero [...] che potrebbe assorbirli? Dov’è l’avvenire? Si profilano all’orizzonte domande che mettono a dura prova le nostre evidenze; come se fosse necessaria, a causa della potenza che abbiamo scatenato, una specie di rifondazione dell’umanità» (pp. 15-16).
Abbiamo bisogno di riscoprire che cos’è l’uomo, come’è fatto, quali sono le sue possibilità e quali le sue aspirazioni. Compiti questo per una scienza dell’umano che sappia ben coniugare le esigenze di rigore con il fondamento primo di ogni uomo, cioè la sua unicità. Solo una conoscenza genuina dell’uomo può rendere quest’ultimo veramente felice, la convivenza pacifica, l’esistenza piena. La proposta di Bellet – che non procede ovviamente per dimostrazioni ma che non di meno si basa su quattro “assiomi” – si riconduce ad un unico fondamento, che è poi quello di tutta la sua filosofia: «vivere umanamente è possibile. A chi obiettasse che si tratta di una piatta evidenza, si può replicare che ci sono esistenze umane che sprofondano nell’impossibile o nell’inumano, attraverso il suicidio o diverse forme dell’orrore. Il ruolo della scienza dell’umano è quello di sottrarre l’essere umano a tali abissi» (p. 31). La scienza dell’umano è per l’uomo, per tutti gli uomini. Nella presenza dell’uomo all’altro uomo, e non nelle “esigenze” del mercato o nell’“accumulazione della ricchezza”, risiede l’avvenire, la speranza dell’umanità. “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20).
(«l'Altrapagina», maggio 2009)
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