Ho scritto recentemente in merito alla perversione cristiana e in particolare al “Dio perverso”, categoria del filosofo Maurice Bellet (cfr. “Doppio gioco”, «Il Margine», aprile 2012, pp. 36-41). L’occasione per riparlarne è data da un libricino dell’editore Fara del 1997, che solo ora mi è capitato fra le mani: Dio in guerra, di Giosuè Borsi, in cui - fra le lettere e i diari dell’autore - si ricostruisce l’esperienza della Prima Guerra Mondiale vista con gli occhi di un convinto e zelante cristiano in trincea.
La perversione cristiana nasce da uno stravolgimento del ruolo e del senso della legge: in particolare nasce dal misconoscimento fondamentale dell’esigenza della legge (che è certamente quello di ordinare, ma non nel senso di “impartire degli ordini”, bensì di creare un ordine all’interno del quale la vita umana sia possibile: la “legge di ogni legge”, cui ogni legge deve sottostare, è di essere per il bene dell'uomo - “il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato”, dice il Vangelo). Irrigidire la legge facendone un’esigenza per se stessa, a priori, come se essa non fosse un mezzo per l’uomo ma un fine in sé, conduce al rovesciamento per il quale essa non è più serva dell’uomo, ma è l’uomo a divenirne il servo. Qui fa il suo ingresso la figura cristiana del “Dio perverso”, il quale
sostituisce alla legge come possibilità di vivere insieme umanamente la necessità dell’obbedienza illimitata e a tutti i costi. Ecco che la legge divina, nata dall’amore di Dio si trasforma in una gabbia e in un idolo che è necessario preservare sempre e comunque, anche quando ciò richieda il sacrificio della vita dell’uomo (di se stessi e degli altri; ciò che accade in guerra - anche se non solo lì).
Sul terreno di quel cristianesimo abituato alla delega della propria comprensione della fede a favore del clero - e, di conseguenza, all’obbedienza acritica - germoglia una mentalità congeniale alla formazione di uomini che sappiano eseguire gli ordini senza farsi troppi problemi di coscienza.
A un certo punto il Dio perverso è entrato nella vita di Giosuè Borsi, giovanissimo, e l’ha distrutta. Dopo essersi aperto un varco nella sua devozione ossequiosa fino all’autoavvilimento («ecco dunque la mia preghiera: Signore, dammi prima la forza e la tolleranza che non ho, ispirami una rassegnazione e uno spirito di sacrificio che io, debole, vile, incostante, sciocco, vano, sterile, sarei del tutto incapace di trovare in me stesso, e poi abbatti su di me la più gran somma di sventure e pene, offrimi la più triste delle sorti», p. 36 - corsivi miei). Si capisce d’immediato che le premesse per un funesto epilogo ci sono tutte: dialettica tra il Dio-ottimo e l’uomo-pessimo; disprezzo della propria condizione terrena e ricerca del valore in qualcosa di diverso dalla vita (la sofferenza, la morte); desiderio determinato del sacrificio, inconsapevolmente travestito da abbandono alla volontà di Dio.
Giosuè Borsi muore il 10 novembre 1915, all’età di 27 anni.
«Chi comincia con “bisogna”, ha già finito»
Così si espresse Bellet in un’intervista del settembre 2009 a proposito della perversione cristiana. Quando si fa del dovere (invece che della carità) il fulcro della propria vita, è l’inizio del disastro. E quando ciò avviene in un’ottica cristiana (il dovere irrinunciabile perché santo di compiere la volontà di Dio), il Dio perverso entra in scena e autorizza (anzi, impone) qualunque scempio. È accaduto a Borsi (per il quale il dovere è il perno di tutto, come rileva Chiara Matteini, autrice della Postfazione al volume, p. 154), che ragionava tra sé in questi termini: «bisogna che giustizia sia fatta. [...] La tua misericordia non è mai disgiunta dalla giustizia. Gli uomini debbono osare di rassomigliarti, come tu stesso ci hai comandato. Ora la nostra misericordia sarebbe debolezza e viltà, se non fosse unita alla giustizia» (pp. 8-9 - corsivi miei). Si noti quante volte è tirato in ballo il dovere: sembra non vi sia altra scelta. Peggio: sembra che sia Dio a non volere altro: «queste sono armi di morte, ma un popolo in guerra non può essere che o assassino o giustiziere, colpevole nel primo caso, santo nel secondo. Dunque, l’uomo può giudicare? Può uccidere? Sì, se tu lo vuoi» (p. 9). “Giudica e uccidi” sono le parole che Giosuè Borsi ode da Dio quando sarebbe ancora in tempo a dare al suo dubbio il giusto peso. Poi, la guerra.
Non giudicare
Nel discorso del Dio perverso l’esortazione evangelica (Mt 7,1) e la morte di croce vengono sfigurate nel dovere di operare la giustizia ad ogni costo: «sei tu che hai creato la società e la famiglia e la patria, sei tu che puoi chiamarci a difenderle ad ogni costo, contro chiunque ne sia nemico» (p. 9). Punto cui si giunge facendo leva su una pretesa oggettività metafisica e morale, per la quale esistono Bene e Male assoluti (di fronte ai quali sarebbe apostasia, se non addirittura follia, non agire per il Bene contro il Male, ad ogni costo): «se gli uomini si fanno giustizieri degli uomini, se osano prendere su di sé questa terribile responsabilità come un sacro dovere, la ragione di questa necessità risiede nel male che impera ancora nel mondo» (p. 12 - corsivi miei). Metafisica che conferisce la “certezza assoluta di non errare”, a patto di saper obbedire e di non voler fare di testa propria: «non sei forse tu che permetti a ciascuno di noi d’essere in pace con la propria coscienza, anche in mezzo a questo turbine tempestoso che ci travolge tutti? Non sei tu che ci hai insegnato l’obbedienza e la disciplina? Qualunque cosa accada, ogni uomo può avere la certezza assoluta di non errare, perché anche chi comanda non dovrebbe obbedire al proprio arbitrio, e dovrebbe avere la forza di obbedire ad una legge imposta ed accettata all’infuori della sua volontà» (p. 12). Cioè la volontà di Dio, cui bisogna assoggettarsi.
Non uccidere
Nella teologia del Dio perverso, il primo comandamento (potremmo dire: il comandamento zero) è: obbedisci. L’obbedienza è infatti, nella sua logica, il fondamento di tutti gli altri. Una volta operata questa prima, irreparabile perversione, il Dio perverso può indisturbato compiere la seconda: sostituire il contenuto della legge (ad esempio, “non uccidere”) con qualunque cosa gli vada a genio, perfino il suo contrario (“uccidi”, ordina a Borsi).
“Obbedisci”, dice il Dio perverso. “E l’amore?” domanda la coscienza cristiana. “Non c’è tempo per l’amore - risponde - siamo in guerra contro il Male, ricordi? Se proprio vuoi amare, ama me”. Che tutto sommato sembra un comandamento evangelico (Mt 22,30), cui però è stato fatalmente mozzata la seconda parte, quella dell’amore del prossimo (Mt 22,31). Questa omissione non turbò Giosuè Borsi (come non turba nessuno che si sottometta al Dio perverso), il quale scrive: «l’amarti è tutto, Signore, ed io ti amerò sempre di più, mia vita» (p. 29). Di qui a smettere di amare il fratello, il passo è breve. Presto, non lo si considera nemmeno più “fratello” e si arriva a scrivere al proprio amico: «ti spedirò alcune teste di Austriaci, come campione senza valore» (p. 70). Giungendo a odiare l’altro («credi, mamma, che combattiamo contro la razzaccia più iniqua e barbara del mondo, e nessuna guerra potrebbe essere più santa di quella che abbiamo intrapresa per abbatterla per sempre e senza pietà», p. 117), fino a provare il gusto orrido dello sterminio (come quando Borsi racconta che a volte i soldati italiani raccolgono armi nemiche abbandonate e le usano in battaglia «perché sembra loro supremamente simpatico di spedirli all’altro mondo con le loro stesse armi», p. 117; o quando spiega: «gli Austriaci [...] furono respinti con perdite enormi, un vero macello», p. 107; o ancora: «un nostro bombardamento è uno spettacolo indimenticabile, e dà l’idea di un cataclisma. Le trincee avversarie sono ridotte a mucchi di macerie informi, e i nemici si vedono scagliati in aria come fuscelli», p. 103 - corsivi miei).
Come può un uomo, in particolare un cristiano, sentirsi «inebriato» (p. 99) di fronte a qualcosa che «dà l’idea di un cataclisma»? Se anche la volontà di Dio fosse quel tipo di sterminio, si potrebbe forse compierlo cristianamente con tale giubilo? Ma chi ha scelto l’obbedienza acritica ha perso la facoltà di porsi domande come questa. Fu il caso di Giosuè Borsi, che fece dell’obbedienza un fine in sé: «obbedirò con convinzione, per il piacere di obbedire puntualmente e bene, con la certezza di cooperare così nel modo migliore alla buona riuscita di tutta l’impresa» (p. 21 - corsivi miei); ammettendo di non aver valutato la bontà della causa per cui combatte: «Signore, io sono un cieco, lo so, io non so niente dei tuoi disegni, non conosco la verità, non so da che parte è la giustizia, non so chi di noi combatte veramente per te, e mi basta di sapere che offrendo il mio braccio e il mio sangue alla patria ho compiuto in ogni modo un dovere che ti è gradito, qualunque sia la bontà della causa per cui l’Italia è scesa in campo» (p. 51 - corsivi miei); e infine declinando l’ultima responsabilità, quella della propria morte, cui è deliberatamente andato incontro: «cara mamma [...] non devi ribellarti neppure un istante ai decreti divinamente sapienti e divinamente amorosi del nostro Signore. Se egli voleva serbarmi ad altro, poteva farmi sopravvivere; se mi ha chiamato a sé, è segno che quello era il migliore dei partiti e il maggior bene per me» (p. 124 - corsivi miei). Come se Dio lo avesse preso e posto di peso nel bel mezzo delle cannonate. In questi casi non c’è evidenza che tenga: quando il Dio perverso perverte l’uomo, lo fa in tutto e per tutto, stravolgendone le convinzioni, le percezioni, le intenzioni, le azioni. A guerra finita gli eserciti si ritirano, lasciando sul campo il Dio perverso, unico vincitore.
Conclusione
Dall’epigrafe nel chiostro di San Lorenzo a Firenze si legge che quella di Giosuè Borsi è «un’anima santa d’eroe» (p. 132), nonostante non si sia a conoscenza di episodi specifici che facciano pensare all’eroismo né tanto meno alla santità; a riprova del fatto che il Dio perverso prospera su di un terreno cristiano, ancor oggi molto fertile per lui, che lega fortemente (e incomprensibilmente) la scelta delle armi con la santità e la morte sul campo di battaglia con il martirio e l’eroismo. Se avanza un po’ di tempo, quando avremo finito di parlare con tutta calma di anticoncezionali e sacramenti ai divorziati, magari parliamo anche di questo. Sapete com’è, c’è gente che ci muore.
(Calabrò, P., 2012, “Il «Dio perverso», figura della guerra”, «Testimonianze», n. 4-5 (484-485), luglio-ottobre 2012, Firenze, 154-157)
0 commenti:
Posta un commento